Emanuela Ulivi

Le elezioni in Libano per il rinnovo del Parlamento che si sono tenute domenica scorsa dopo nove anni, due rinvii e con una nuova legge elettorale, non hanno portato a nessun stravolgimento del quadro politico. E’ stata premiata la stabilità, almeno dal 49.2% della popolazione - contro il 54% nel 2009 -; quello che cambia sono i rapporti di forza, anche intercomunitari. E non sembra un caso che il presidente della repubblica Aoun, rivolgendosi ai libanesi dopo il voto, abbia messo tra le priorità la strategia di difesa attraverso la ripresa del dialogo nazionale, e l’applicazione dell’accordo di Taef che ha posto fine alla guerra civile ma è rimasto largamente inapplicato.

 

I termini della stabilità

Aumenta infatti il consenso alla Corrente Patriottica Libera, il partito del presidente, il cristiano Michel Aoun che nel 2006 ha stretto un patto politico con Hezbollah, la formazione sciita legata all’Iran, ed è riuscito a farsi eleggere capo dello stato nel 2016 dopo 18 mesi di stallo, sparigliando gli schieramenti. Reduce dalla guerra in Siria a fianco del presidente Bachar al Assad – nonostante il Libano avesse scelto nel 2012 con la Dichiarazione di Baabda la neutralità - e dopo aver combattuto contro i jihadisti nel Nord del Libano, nello jurd di Ersal espugnato poi di concerto con l’esercito, il Partito di Dio guadagna di poco e in quanto a seggi si posiziona al di sotto dell’altro partito sciita, Amal. Ma tra alleanze e apparentamenti ha assicurato i consensi alla sua politica. Perde il partito del premier uscente, il sunnita Saad Hariri. Non muore l’idea, ma con l’esito delle urne viene interrata la formula che all’indomani della rivoluzione dei cedri aveva aggregato le forze antisiriane nella coalizione del 14 marzo, di contro al raggruppamento dell’8 marzo, mentre tornano in parlamento alcuni filo siriani. Tra questi, apparentato ad Hezbollah, il capo della sicurezza all’epoca dell’assassinio di Rafiq Hariri nel 2005, Jamil al-Sayyed, imprigionato per 4 anni e poi rilasciato, considerato la lunga mano della Siria in Libano. Vera novità è l’ingresso pur con un'unica deputata, della società civile che per la prima volta si è affacciata, battagliera, alle elezioni.

Le componenti sunnite

La ripartizione confessionale del parlamento che assegna metà dei 128 seggi alle varie comunità cristiane e metà alle componenti musulmane, il sistema proporzionale a preferenza unica introdotto per la prima volta in Libano, la preparazione delle liste e degli apparentamenti, con gli sgambetti di rito, hanno impegnato a fondo le varie forze politiche nelle 15 circoscrizioni. Alla conta dei seggi, secondo i dati definitivi, il partito del premier sunnita uscente Saad Hariri, - la Corrente del Futuro, Al Mustaqbal - perde la quota più considerevole di rappresentanti passando da 32 a 19 deputati, anche se non è improbabile una sua riconferma a capo dell’esecutivo, secondo la ripartizione delle massime cariche dello stato tra cristiani, sunniti e sciiti, rispettivamente a capo della repubblica, del governo e del parlamento. Mentre la lista di Nagib Mikati, anch’egli sunnita ed ex premier, che stavolta correva da solo, ne guadagna 4 a Tripoli, la stessa capitale del nord del Libano in cui la lista di Achaf Rifi, dimessosi polemicamente da ministro della giustizia e strenuo oppositore di Hezbollah, che aveva stravinto alle municipali nel 2016 con 12 eletti su 24, è stato emblematicamente penalizzato.

I cristiani

Sul versante cristiano, la CPL di Michel Aoun, anche a questo turno insieme ai drusi di Talal Arslane, passa da 20 a 25 seggi. Chi raddoppia sono invece le Forze Libanesi di Samir Geagea, acerrimo nemico del generale Aoun negli anni della guerra civile ma decisivo per eleggerlo a Baabda dopo aver ritirato la propria candidatura come esponente della coalizione del 14 marzo, che porta in parlamento 16 deputati, tra i quali la moglie Satrida, riconfermata, una delle sei donne che punteggeranno l’emiciclo. Penalizzato il partito dei Falangisti, il Kataeb dei Gemayel, nonostante gli sforzi di Samy e le sue battaglie in parlamento, ridotto a tre deputati, che paga non solo l’avversione allo stato nello stato di Hezbollah, ma forse anche il prezzo politico più consistente nella ridistribuzione delle carte tra i cristiani in vista delle prossime presidenziali. Anche il Marada, il partito di Sleimane Frangiyeh, alleato con l’8 marzo, perde un seggio e passa a 3.

I drusi di Walid Jumblatt, il politico di lungo corso che ha ceduto lo scettro del Partito Socialista Progressista al figlio Taymour, ”l’erede riluttante”, uno dei vari rampolli ai quali i padri hanno passato la mano e il partito, perdono due seggi e scendono a 9. Ma c’è una novità: è col volto della giornalista Paula Yacoubian, che la società civile, coi suoi movimenti che hanno preso forma nel 2015 con le proteste per i rifiuti, riuniti in Kullouna Watani, è entrata in parlamento. Un’altra battagliera giornalista e scrittrice, Joumana Haddad, domenica sera sembrava fosse stata eletta. Ha visto invece dai dati ufficiali, assegnato ad un candidato della CPL il seggio per il quale correva ed ha presentato ricorso. Secondo la stampa, si parla di 7000 violazioni durante le elezioni: dall’interruzione del silenzio elettorale, mai previsto prima, al controllo sui votanti.

Il fronte sciita

Chi ha gridato vittoria è il blocco sciita costituito da Amal e Hezbollah, formazioni che nel parlamento uscente avevano 13 seggi a testa. Ora il partito di Naby Berry passa a 17 deputati e quello di Hassan Nasrallh a 14, dopo una campagna elettorale “serrata”, in cui il giornalista sciita Ali el-Amine che ha provato a proporre una lista indipendente, è stato malmenato. Forti degli apparentamenti, i due partiti particolarmente radicati nel Sud del Libano costituiscono ora il gruppo numericamente più nutrito in parlamento. Lo hanno gridato in maniera ostentata nel centro di Beirut lunedì sera i loro sostenitori, lo ha ribadito il segretario Hassan Nasrallah parlando di grande vittoria, dopo anni di lavoro per accrescere la sua influenza. Anche Berry ha parlato di vittoria dell’equazione esercito-popolo-resistenza ed ha già fatto sapere il suo parere sulla riconferma al ministero delle finanze di uno dei suoi. Ora Hezbollah non avrà più necessità di reclamare il terzo di veto per ottenere il consenso che gli serve per le proprie attività politiche e militari. Il suo arsenale sembrerebbe quindi fuori discussione. Tanto che il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman ha subito sintetizzato il risultato del voto: Libano = Hezbollah.

Ma Michel Aoun, presidente della repubblica libanese, ha appunto sollevato, tra le altre, la questione della strategia di difesa. Anche il Gruppo Internazionale di Supporto, istituito dalle Nazioni Unite nel 2013 per coadiuvare alla stabilità del Libano e delle sue istituzioni (composto dalle Nazioni Unite, Cina, Francia, Germania, Italia, Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti, Unione Europea e Lega Araba) si aspetta che il Paese dei Cedri tenga fede ai suoi impegni internazionali, “comprese le risoluzioni Onu 1559 del 2004 e 1701 del 2006 per estendere l’autorità del Libano su tutto il territorio nazionale e assicurare il suo monopolio sull’uso legittimo della forza”. Messaggio chiaro che si rifà ai tempi dell’occupazione siriana – le truppe siriane si sono ritirate nel 2005 - e prosegue col mandato dell’Onu all’Unifil, la 1701, con la quale si è posto fine alla guerra con Israele nel 2006. Il premier uscente Hariri, “trattenuto” a novembre scorso a Riad per alcuni giorni dal regime saudita in maniera dimostrativa, perché il suo governo era troppo accondiscendente con Hezbollah, ha dichiarato subito dopo il voto che la questione delle armi del Partito di Dio è una faccenda di carattere regionale. E nella regione in questo momento si stanno tessendo nuovi equilibri, in funzione dello sponsor di Hezbollah: l’Iran.

10 maggio 2018

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