Emanuela Ulivi 

BEIRUT - Non sai cosa ti aspetti di vedere nella piazza principale della capitale dopo aver letto sui giornali delle proteste e a volte degli scontri -con relative devastazioni- per quella che qui chiamano “la crisi dei rifiuti” e che in breve tempo ha abbracciato tutte le questioni irrisolte della politica. Cumuli di immondizia sono ammassati per strada sotto il sole, non nei quartieri bene ma in quelli dove non si paga, così si dice, per rimuoverli, dopo la chiusura il 17 luglio dell’unica discarica del Libano a Naameh, vicino a Sidone, diventata una montagna che letteralmente sversava in mare, senza che ci fosse un piano alternativo o la benché minima idea di cosa fare. Nel vuoto politico, e in piazza, dalla fine di agosto si è allora affacciato il movimento “Voi puzzate!”, che di maleodorante avverte certo la spazzatura ma soprattutto la corruzione e accusa i politici di non fare il loro mestiere. A seguire, una serie di collettivi protesta sistematicamente davanti ai ministeri e nelle strade, per chiedere conto non solo dei disservizi.

E non immagini certo di trovare le vie di accesso a Place de l’Etoile, dove c’è il Parlamento, chiuse da alte inferriate. Un poliziotto in borghese col giubbotto su cui è scritto chi è in due lingue, decide chi può entrare e chi no, se hai il permesso in mano bene, altrimenti dietrofront. Decido di approfittare del mio abbigliamento multicolor e sorridente gli cantileno: “Je suis touriste”: ”Allez-y”. E’ andata. Scavalco dalla piccola porta presidiata da agenti armati e entro.  La prima cosa è il silenzio, che all’ora di pranzo non è normale vista la quantità di uffici, negozi e ristoranti albergati sopra e sotto i bei portici rifatti da Solidère dopo la guerra e si affacciano da quel lato sulle rovine romane. Al di là delle vetrate ci sono solo polvere e ombre. Nel ristorante a due passi da dove era prima l’Ambasciata italiana, in cui mi ero seduta –invitata ovviamente- la prima volta che sono venuta in Libano, con al tavolo accanto Staffan De Mstura, senza stoviglie e senza luci i mobili sembrano scheletri imbalsamati. Il negozio di scarpe ha la collezione estiva ancora in vetrina e nessuno dietro al banco. La chiesa greco ortodossa è aperta, splendida e vuota. 

Come mai questo deserto? Solo questione di sicurezza intorno al Parlamento? Si, ma. Il centro, si potrebbe dire, è chiuso da un mese per manifestazioni. Al grido di allarme, una decina di giorni fa, del presidente dell’Associazione dei commercianti di Beirut Nicolas Chammas, che per “salvare il cuore di Beirut” e le famiglie dei lavoratori aveva paragonato il centro città ad un mercatino, paventando la lotta di classe fomentata da comunisti e marxisti infiltrati tra i manifestanti, ha risposto una grande marcia popolare, con intellettuali e classe media a bordo, che di quel centro si vuole riappropriare.  Vuole riprendersi, così hanno detto, un luogo in cui si trovano i palazzi del potere e le banche, e dove hanno aperto i negozi delle griffe internazionali al posto delle attività commerciali che portavano nella capitale i prodotti da tutto il Libano. Il centro dove c’è piazza dei Martiri, luogo della storia e dell’anima di questo Paese.

Faccio un giro veloce, tanto non c’è niente da vedere e nessuna strada da cui poter passare per percorrere il centro, come mi spiega un agente col quale cerco di mettere in pratica le mie lezioni di arabo. Torno indietro uscendo dalla stessa porta dell’entrata e mi dirigo verso il palazzo del governo, il Serail. A sinistra piazza Riad el Sohl, a destra altri negozi e attività chiuse. Mi torna in mente il 2006, l’anno della guerra di Israele contro Hezbollah, quando nelle stesse vetrine, a dicembre, c’erano ancora gli abiti estivi a saldo. Ora la guerra è un’altra, la combatte la società civile, o almeno una parte, e si chiama “Stand up for your rights”. E’ scritto lì sui muri color ocra. 

Sotto al Serail, il palazzo del governo il cui premier esercita le funzioni della presidenza della repubblica da più di un anno visto che dopo Michel Sleimane non si riesce ad eleggere un nuovo capo dello stato,  c’è una selva di filo spinato sul quale i manifestanti hanno lanciato a più riprese dei sacchi di spazzatura. Rimasti impigliati, quei sacchi colorati sono più chiari di mille discorsi sullo stato d’animo della società libanese. 

Giro lo sguardo e sul lato opposto della strada, in un angolo della piazza, ci sono alcune tende, anche loro guardano verso il Serail. Ci stanno dentro da mesi i parenti dei militari sequestrati ad agosto 2014 dall’Esercito Islamico e dal Al Nusra, il braccio di Al-Qaeda in Siria, a Ersal al confine con la Siria, aspettando una risposta dalle istituzioni. Già quattro dei 36 sequestrati sono stati uccisi, alcuni sono stati rilasciati, gli altri, 13 poliziotti e 12 soldati, rimangono detenuti nello jurd di Ersal. 

Chi ha un marito, chi un figlio. Una giovane donna dice di aver visto suo marito una sola volta in tutto questo tempo e che ha un figlio molto piccolo. Perché siete qui? Perché qualcuno faccia qualcosa. Le trattative sono ferme e neanche la mediazione del Qatar ha avuto successo. I sequestratori chiedevano la liberazione  di alcuni islamisti detenuti nelle carceri libanesi, tra questi Souja Doulaymi, ex moglie del califfo dello Stato Islamico Abou Bakr Baghdadi. Ora cosa chiedono? In parte la liberazione dei detenuti e in parte vogliono soldi. E voi? Noi aspettiamo. Ogni tanto manifestano, ma la crisi dei rifiuti ha un po’ rubato loro la prima pagina. La popolazione libanese è al vostro fianco? Una parte. L’altra continua la sua vita. I locali sono pieni ogni sera, la strada della movida ora è quella di Mar Michail, nel quartiere armeno, ma le luci sono accese ovunque fino al mattino. I bagni sul mare sono affollati perché il sole è ancora forte, i giovani stanno in piscina col bicchiere in mano, ballano e amoreggiano come da copione, con la musica che è a palla. 

Il clima è, ancora una volta, quello dell’attesa. Si vedrà chi e quando, sotto i portici del centro, si riaccenderanno le luci.

30 settembre 2015

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