Emanuela Ulivi 

Ben poco è cambiato in Libano, un Paese ancora politicamente instabile in una regione in ebollizione. Trent’anni dopo la missione del generale Angioni nel Paese dei Cedri, molto invece è cambiato per l’Italia. “Le nostre Forze armate si distinguono per le capacità operative di eccellenza che mettono in campo e per la perizia e la dedizione con cui sanno coniugare l'indispensabile presidio della forza con l'assistenza alle popolazioni e il sostegno alla ripresa delle attività economiche e alla ricostruzione delle istituzioni nelle aree di crisi", sono state le parole del presidente Giorgio Napolitano riguardo alle missioni dei contingenti italiani nel mondo, pronunciate la vigilia della ricorrenza del 4 novembre 2009 di fronte ai militari dell’Unifil 2, nella base di Shamaa a Sud di Tiro. In Libano. Un altro presidente della repubblica, Sandro Pertini, nel 1983 aveva voluto festeggiare la stessa ricorrenza con altri militari italiani, anche loro impegnati per la pace nella seconda missione italiana in Libano guidata dal generale Franco Angioni, che l’opinione pubblica italiana ebbe modo di conoscere scoprendone –non senza un certo stupore, anche da parte dei più scettici- la “professionalità e l’umanità”.

La “Libano 2” seguiva la missione del contingente guidato dal tenente colonnello Bruno Tosetti, arrivato alla fine di agosto del 1982 per scortare insieme alle forze francesi e americane i fedayin palestinesi di Arafat fuori dal Libano. Diciotto giorni in tutto. Angioni, sbarcato poco dopo, ci rimarra’ 18 mesi. Erano gli esordi, a quasi quarant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, di un’altra pagina per le forze armate e per la politica estera italiana. E il debutto di quella “specificità” dei contingenti italiani poi riconosciuta in più occasioni.

I massacri nei campi palestinesi di Sabra e Chatila ad opera di un gruppo di falangisti libanesi in ritorsione per l’assassinio del presidente Bachir Gemayel, avevano infatti costretto la comunità internazionale a intervenire di nuovo nella capitale libanese, divisa in due dalla linea verde e già sfiancata da sette anni di una guerra che tra ingerenze esterne e rinfocolamenti interni sarebbe durata fino all’89. Ne ha ricostruito il contesto con tratti nitidi e precisi, l’allora colonnello e oggi generale Angioni – anche se la verve è la stessa - invitato dal Lions Club Medio Valdarno “Galileo Galilei“ all’Istituto di Scienze Militari e Aeronautiche il 9 novembre scorso, in una sala gremita da alti esponenti dell’aeronautica militare e della società civile, da chi ricorda ancora oggi quella missione e chi nel 1982 non era ancora nato. Trent’anni dopo, a Firenze.

Fu infatti Giovanni Spadolini, all’epoca capo del governo e nel 1983 ministro della difesa, che pensò, ha ricordato Angioni, ad una soluzione politica per tirare fuori Israele, di cui era sostenitore, dalla situazione di empasse in cui si trovava nel momento in cui, arrivati i suoi carrarmati fino a Beirut con l’operazione “Pace in Galilea”, non poteva togliere l’assedio alla capitale libanese né attaccarla. Ministro della difesa del governo Spadolini, un altro fiorentino, Lelio Lagorio, convinto che riportare la calma in Libano -terreno di gioco tra l’altro, di un’altra manche della guerra fredda– volesse dire abbassare la tensione nella regione e nel Mediterraneo nell’interesse anche del nostro Paese, evidenziando il “New Deal” italiano in ambito internazionale.

Partirono quindi i militari italiani e il 26 settembre Angioni tornò in Libano per coadiuvare il governo a ristabilire la sovranità e per proteggere la popolazione civile. Al contingente italiano venne riservato il settore interno della capitale, una porzione tra il centro e la corniche, dove si erano posizionate le forze francesi, e la zona dell’aeroporto in cui si erano installati i soldati Usa.In quella parte della città la popolazione era in maggioranza musulmana e c’erano 24.000 profughi palestinesi nei campi di Chatila e di Borj el Brajneh da gestire. Agli ordini di Angioni 2.400 militari, molti dei quali di leva, ventenni. Con loro, il generale puntò sulla preparazione, la logistica e il morale. Li “armò” anche di cultura; era essenziale che conoscessero quel Paese così complesso, con le sue 18 comunità religiose e le sue fazioni politiche. E che attraverso la cultura acquisissero un’etica del comportamento che intuitivamente modulasse la loro reazione al pericolo in modo repentino e non rabbioso. Un decalogo non scritto che permettesse ad ogni militare di muoversi “da protagonista” nell’ambito della missione, fatto di principi quali l’etica del comportamento ispirato al rigore e all’altruismo, sia nei rapporti coi commilitoni che con la popolazione, che con l’avversario. Tenendo conto nei rapporti con la popolazione e nell’assolvimento del compito che era il supporto alla pace, della salvaguardia dei diritti umani, adottando tutte le misure lecite, pur sapendo che l’avversario si mimetizzava nella popolazione. “L’avversario –ha rimarcato convinto Angioni- non il nemico, perché il militare non ha nemici. E’ necessario operare senza odio”. Avendo acquisito la capacità di reagire all’offesa non sparando nel mucchio e  non per rappresaglia, “altrimenti il concetto di giustizia si trasforma in vendetta o appare come tale”.

In quella che è stata una missione seguita da vicino da stampa e tivù, Angioni non ha potuto non rievocare un’altra fiorentina, che ha consegnato lui, “il Condor”, e la “Libano 2” alla memoria collettiva. E, mescolandosi tra i militari, ha convinto Paolo Nespoli, allora incursore nel contingente a Beirut, a seguire il suo sogno di diventare astronauta. E’ Oriana Fallaci, una che non si è mai fatta incantare da nessuno. Per due volte è stata in Libano. La prima preceduta da un messaggio diretto a lui, rammenta ancora oggi Angioni, di questo tenore: “fare attenzione”. La seconda a febbraio del 1984. Nel frattempo, c’erano stati, il 23 ottobre 1983, gli attentati alla caserma dei soldati americani e al quartier generale francese: 241 e 58 morti. La Fallaci lasciò il Libano insieme ai militari e una volta sbarcata sul molo a Livorno, Angioni non la vede più: “sparì. Cinque anni dopo usciva Insciallah”.

Ma del “Condor” Oriana parlava ancora nel 2006, nascosta in una clinica fiorentina dove ha trascorso i suoi ultimi giorni, testimonia oggi Aligi Cioni, docente dell’Università degli Studi di Firenze ed ex-direttore della sede ANSA di Firenze, che introducendo il generale Angioni ha sottolineato quella pagina di storia scritta dai militari italiani in Libano e rimbalzata all’opinione pubblica grazie a giornalisti come Biagi, Granzotto, Tortora e la Fallaci. “Ne parlava, Oriana, come una delle poche, se non pochissime, persone che stimava”.

15 novembre 2012

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