Emanuela Ulivi 

Quanti sono morti? A trent’anni di distanza è ancora possibile leggere cifre discordanti, addirittura doppie tra un minimo di 800 a un massimo del doppio o del triplo. Eppure i morti, come i vivi, hanno un nome e un cognome. Questa è la sorte del massacro nei campi palestinesi di Sabra e Shatila in Libano, compiuto tra il 16 e il 18 settembre del 1982 per rappresaglia contro l’assassinio, due giorni prima, del neoeletto presidente della repubblica Bechir Gemayel.

Oltre all’inchiesta israeliana –l’unica- che portò alle dimissioni dell’allora ministro israeliano della difesa,Ariel Sharon, un altro protagonista, Elie Hobeika, capo delle milizie cristiane falangiste che compirono la strage, aveva promesso vent’anni dopo importanti rivelazioni che lo scagionavano. Lo aveva anticipato a due senatori venuti in Libano dal Belgio - Paese in cui alcuni sopravvissuti erano riusciti a far aprire un processo sul massacro per il quale nessuno è mai andato in galera o è stato ritenuto responsabile- due giorni prima che un attentato, il 24 gennaio 2002, chiudesse la bocca di questo cosiddetto signore della guerra.

Sul massacro di Sabra e Chatila, in cui furono trucidati in maggioranza donne, vecchi e bambini, restano solo le testimonianze dei sopravvissuti e il silenzio di chi pur sapendo non parla. Trent’anni dopo parlano invece alcuni documenti pubblicati, il 16 settembre scorso, dal New York Times (http://s3.documentcloud.org/documents/433279/lebanonfiles.pdf). Si tratta di documenti declassificati trovati quest’estate da un ricercatore americano della Columbia University, Seth Anziska, negli archivi di stato israeliani, in cui sono riportate le trascrizioni letterali delle conversazioni tra esponenti americani e israeliani prima e durante i massacri. Rivelano, nota Anziska nel suo articolo “Un massacro evitabile”, che gli israeliani ingannarono i diplomatici americani su quanto stava accadendo a Beirut, forzandoli ad accettare una falsità: che nei campi palestinesi c’erano migliaia di terroristi. Più inquietante, aggiunge, è il fatto che gli Usa, che potevano fare pressioni diplomatiche su Israele, cosa che avrebbe potuto porre fine alle atrocità, non lo fecero. Il risultato, conclude l’autore, fu che i miliziani falangisti poterono uccidere quei civili palestinesi che l’America aveva promesso di proteggere appena poche settimane prima.

Il primo settembre i palestinesi, compreso Yasser Arafat, avevano lasciato Beirut, come da accordi tra gli Usa e l’Olp -di cui Arafat era capo- nei quali era previsto che Israele (entrato in Libano il 6 giugno con l’operazione “Pace in Galilea”) avrebbe dovuto a sua volta uscire dalla capitale libanese. Dieci giorni dopo anche i marines erano partiti dal Libano, avendo negoziato un cessate il fuoco che comprendeva delle garanzie scritte a protezione dei civili palestinesi nei campi. Dopo l’assassinio di Bachir Gemayel il 14 settembre, che stroncava le speranze di Israele di un’alleanza coi cristiano maroniti libanesi, le truppe israeliane occupano Beirut Ovest, dove ci sono i campi di Sabra e Chatila, in violazione di quegli accordi. “Per evitare dei pogrom” e proteggere la pace, dice il premier Menachem Begin all’inviato americano in Medioriente Morris Draper il giorno dopo, informano ora quei documenti.

I tre carteggi pubblicati dal New York Times riportano alcune conversazioni tra esponenti israeliani e statunitensi nei tre giorni che vanno dal 16 al 18 settembre. Alcune furono molto tese, come quella del 16 tra il sottosegretario di stato americano Lawrence S. Eagleburger e l’ambasciatore israeliano Moshe Arens, cui il sottosegretario chiede che Israele si ritiri immediatamente da Beirut Ovest. Nel dire questo, Eagleburger fa notare all’ambasciatore israeliano che la credibilità di Israele è seriamente compromessa mentre gli Usa apparivano come vittime di un raggiro deliberato da parte di Israele. All’incontro era presente anche un giovane Benjamin Netanyahu, all’epoca vice capo della missione israeliana negli Usa, come rivelano le note in ebraico sul documento pubblicato.

Lo stesso giorno a Tel Aviv nell’incontro tra Draper, l’ambasciatore Usa Samuel Lewis e esponenti israeliani, il ministro della difesa Sharon giustificava l’occupazione di Beirut Ovest, dove sarebbero rimasti 2-3.000 terroristi, e veniva contestato da Draper che aveva coordinato personalmente l’evacuazione dei palestinesi e si diceva orripilato nel sentire Sharon che meditava di permettere alla milizia falangista di entrare in quel settore della capitale.

Già la sera del 16 settembre, primo giorno del massacro, il governo israeliano era al corrente che le milizie cristiane erano entrate nei campi di Sabra e Chatila, ma il giorno successivo il ministro degli esteri Yitzhak Shamir, nell’incontro con Draper, Sharon e diversi capi dell’intelligence, non ne parlò.

Un incontro drammatico quello del 17 settembre in cui, secondo Seth Anziska, gli americani furono intimiditi dalla falsa insistenza di Sharon che i terroristi andavano spazzati via. La trascrizione mostra, scrive Anziska, “come il rifiuto di Israele di lasciare le aree sotto il suo controllo e i ritardi nel coordinarsi con l’esercito libanese, che gli americani volevano subentrasse, abbia prolungato il massacro”. Drammatico soprattutto perché c’era chi sapeva e chi non sapeva che la carneficina era in corso.

Il terzo documento pubblicato riporta il colloquio tra il segretario di stato americano George Shultz e l’ambasciatore israeliano Arens, dopo che gli Usa seppero che il massacro era stato portato a termine. "Non voglio entrare in quanto sta accadendo a Beirut. Dai resoconti , e i resoconti variano, quello che abbiamo è un massacro. Donne e bambini sono stati assassinati, è stata uccisa gente indifesa, ci sono fosse comuni. E' un quadro orribile", esordisce Shultz aggiungendo: "Il presidente (Reagan n.d.r.) mi ha chiesto di domandare a voi di portare le vostre forze fuori da Beirut Ovest. Ci era stato detto che il governo del Libano è pronto a occupare le vostre posizioni. Questo è il messaggio principale che il presidente vuole sia consegnato". “Quando prendi il controllo militare di una città -specifica Shultz- sei responsabile di ciò che accade. Non dico l’abbiate voluto (il massacro, n. d. r.), ma ciò che è accaduto resta nelle vostre mani”, “si può speculare su cosa sarebbe successo se Israele non ci fosse stato, ma il fatto è che voi ci siete e questo è accaduto”.

Cosa accadde dopo il massacro è ormai storia: gli Stati Uniti, la cui politica in Medioriente aveva subito un duro colpo dopo Sabra e Chatila, inviarono di nuovo i marines in Libano. Il 23 ottobre 1983, 241 marines morirono in un attentato alla loro caserma e gli Usa si ritirarono dal Libano, "con la coda tra le gambe" come ha confessato l'ambasciatore Lewis ad Anziska.

29 settembre 2012

Vai all'inizio della pagina