Giulia Brugnolini 

E’ finito lo sciopero della fame dei milleseicento prigionieri palestinesi -un terzo di quelli detenuti nelle carceri israeliane, 310 dei quali per detenzione amministrativa ovvero senza capo d’accusa né processo- iniziato il 17 aprile e che ha portato due giovani a un passo dalla morte. Alla vigilia del Giorno della Nakba (in arabo "catastrofe" celebrata ogni anno il 15 maggio, giorno successivo all'anniversario della proclamazione dell’indipendenza da parte di Israele nel 1948, che vide il primo grande esodo dei palestinesi), grazie alla mediazione di Egitto e Giordania i prigionieri e le autorità carcerarie israeliane hanno firmato un accordo che accoglie la maggior parte delle richieste dei detenuti. Potranno ricevere la visita dei parenti, per alcuni finira’ il regime di isolamento e altri vedranno la fine della loro “detenzione amministrativa” a meno che non ci siano nuove prove: un tipo di detenzione che comunque continuerà ad esistere e il cui uso e’ stato oggetto anche di un richiamo da parte del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, che ha invitato Israele a celebrare i processi o a liberare i prigionieri.

In uso in diversi Paesi, la detenzione amministrativa in Israele deriva dalle leggi eccezionali ereditate dal mandato britannico in Palestina, contro quello che veniva chiamato terrorismo sionista. Pur criticata gia’ allora anche da giuristi israeliani, prevede la detenzione per ragioni di sicurezza di un sospetto per un periodo di sei mesi rinnovabili a tempo indefinito. Senza la certezza delle prove e di arrivare ad un processo. Nel rapporto di Human Right Watch del 2011 si legge che l’incarcerazione il più delle volte si basa su informazioni e file segreti, mai resi noti ai prigionieri né ai loro avvocati. Oltre alla detenzione amministrativa, molti prigionieri sono tenuti in isolamento da anni, col divieto di accesso a libri, radio e televisione e senza poter ricevere la visita dei medici e dei familiari, in particolare se questi provengono da Gaza.

Il trentatreenne Khader Adnane, membro della Jihad islamica - gruppo militante palestinese che nega il diritto ad Israele di esistere come Stato - arrestato lo scorso 17 dicembre nel villaggio di Tsahal in Cisgordania, è stato imprigionato perché accusato di aver progettato attentati. Il suo sciopero è durato 66 giorni, alla fine dei quali Khader, 40 chili di meno e in pericolo di vita, il 17 aprile ha ottenuto il rilascio. La storia di Khader, nella speranza di uguale successo, ha dato inizio ad aprile ad un sciopero senza precedenti tra i detenuti, accomunando la protesta per la detenzione amministrativa a quella per un trattamento migliore. Alla loro iniziativa hanno aderito vari leader palestinesi, tra i quali Ahmad Saadat capo del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. 
Prima di loro, Bilal Diab, 27 anni, di Jenin e Thaer Halahlel, 33 anni, di Hebron, entrambi membri della Jihad Islamica, detenuti nella prigione di Ofer vicino a Ramallah, il 29 febbraio hanno cominciato a rifiutare il cibo. Dopo sessantasei giorni di digiuno hanno rischiato di morire tanto che la Croce Rossa Internazionale ha chiesto il loro ricovero in ospedale. In sedia a rotelle, il 3 maggio scorso si sono presentati davanti alla Corte Suprema di Israele chiedendo di nuovo il rilascio di tutti i detenuti in sciopero. Ma la Corte, pur riconoscendo che la detenzione amministrativa costituisce una “aberrazione” sotto il profilo giuridico, non ha preso nessun provvedimento. La portavoce dell’amministrazione penitenziaria israeliana Siva Weizman ha anche precisato che i prigionieri palestinesi sono incarcerati secondo la legge e beneficiano di maggiori diritti che in molti altri Paesi. Al contrario, l’inviato speciale dell’Onu per i diritti umani nei territori occupati Richard Falk si è dichiarato indignato per le continue violazioni di questi diritti, ricordando che dal 1967 sono stati imprigionati in Israele 750.000 palestinesi, di cui 23.000 donne e 25.000 bambini, ossia circa il 20% del totale della popolazione palestinese dei territori occupati.
 
Ma la protesta è uscita fuori dalle carceri. Manifestazioni di solidarietà ci sono state in Cisgiordania e Israele. Lo scorso venerdì una marcia a Kafr Kana, vicino a Nazareth, ha riunito più di dodicimila persone.
Alla vigilia del sessantaquattresimo anniversario della Nakba, settantaseiesimo giorno di sciopero della fame per Halahleh Diab, l’accordo ha fugato i timori israeliani di un’escalation delle tensioni durante la Nakba. Israele ha accettato le condizioni proposte dai detenuti in cambio dell’impegno da parte di coloro che saranno liberati a non commettere nessun atto di terrorismo. I detenuti amministrativi verranno liberati al termine del periodo fissato inizialmente, sempre che non vengano fuori nuove prove, che dovranno essere comunque confermate dal tribunale militare. Mark Regev, portavoce del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanjau, si è dichiarato soddisfatto per la negoziazione, nella speranza che questo sia un passo per stabilire un rapporto di fiducia tra le parti nel processo di pace. 
 
Halahleh sarà rilasciato il 5 giugno mentre Bilal Diab l’11 agosto. “Quest'anno la commemorazione della Nakba ha un aspetto positivo” ha dichiarato ieri Aghsan Barghouti, attivista del movimento giovanile indipendente Herak Shebabi, arrivato insieme a centinaia di ragazzi davanti alla prigione di Ofer. 

21 Maggio 2012

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