Jacopo Salvadori 

«Primavera araba» o «Primavere arabe»? È passato ormai più di un anno dallo scoppio delle proteste maghrebine contro il carovita e la povertà diffusa, che si sono poi trasformate in rivolte, detronizzando, dopo decenni di dittature abilmente camuffate da «democrazie popolari», i raiss di alcuni Paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molte le analogie tra questi rivolgimenti se si guarda ad esempio al ruolo del quale sono stati investiti gli eserciti nazionali quando hanno sostituito all'esecutivo i capi dei vecchi regimi. Ma anche forti le differenze, tanto che risulta molto difficile parlare di «Primavera Araba» al singolare: ogni Paese ha avuto una propria rivoluzione e ha una propria storia da raccontare.

Sebbene si sia innescato un effetto a catena dal suicidio del ventiseienne Mohamed Bouazizi che si è dato fuoco il 17 dicembre 2010 a Sidi Bouzid, cittadina a Sud di Tunisi, le varie rivolte si sono sviluppate con modalità simili in Tunisia e Egitto, dove le sollevazioni sono nate dal basso, sotto la spinta di richieste di maggiore democrazia e di condizioni di vita migliori, e viste di buon occhio dalla comunità internazionale. Mentre in Siria, dove la ribellione contro il regime rischia di destabilizzare anche gli equilibri regionali coinvolgendo Paesi come l’Iran, l’Iraq, il Libano, la Giordania, Israele, la Turchia, e in Libia, Paese produttore di petrolio in cui sono intervenuti i jet della Nato, le rivolte di piazza hanno intercettato in misura maggiore gli interessi della comunità internazionale.

Già da tempo si avvertiva che i vecchi equilibri potevano essere messi in discussione. Dopo gli attentati dell'11 settembre e la guerra in Afghanistan, il presidente Usa George W. Bush aveva ipotizzato un possibile effetto domino innescato dalla caduta del regime irakeno di Saddam Hussein, primo capitolo di una storia intitolata “esportare la democrazia” mai scritta. Sono dovuti passare dieci anni per scuotere gli assetti politici nei Paesi della riva Sud del Mediterraneo e in Medio Oriente, quando la crisi economica ha messo a nudo l’incapacita’ dei regimi di rispondere alle esigenze della gente.

Un ruolo chiave in questa Primavera araba lo hanno giocato le società civili, che grazie ai media, tradizionali e non, sono riuscite ad organizzare la rivolta. I social network, in primis Facebook e Twitter, si sono rivelati strumenti indispensabili facendo connettere milioni di utenti in tempo reale: e’ grazie alle proteste strutturate on-line che piazza Tahrir si riempiva di giorno in giorno. Altro attore fondamentale è stata la tv satellitare, in particolare i due canali in lingua araba Al Jazeera e Al Arabiya che hanno trasmesso in diretta le immagini della protesta nelle varie piazze arabe, diffondendo al contempo l’esempio di cittadini che hanno deciso di criticare e di protestare per scegliere il loro futuro.

Un tratto comune e’ stato l’emergere di alcuni movimenti di matrice islamica, tra questi i Fratelli Musulmani, che dopo anni di opposizione clandestina durante gli anni delle dittature cosiddette “moderate” si ritrovano oggi alla ribalta. Altissimi i loro consensi in quasi tutti i Paesi arabi, raggiungendo la maggioranza parlamentare in Egitto. La loro forza è stata quella di accentuare i valori ideologici e identitari, soprattutto dopo gli attentati al World Trade Center del 2001 che hanno segnato un solco profondo tra “mondo occidentale” e “mondo arabo”. Ma si puo’ parlare di un nesso tra i movimenti islamisti e primavera/primavere arabe? Anche se non sono stati tra i suoi promotori, i gruppi fondamentalisti o di stampo religioso hanno avuto un ruolo di rilievo nel corso delle varie rivoluzioni, in particolare in Egitto dove il vero motore della rivoluzione sono stati i giovani pur non avendo né un programma politico preconfezionato, né una leadership vera e propria ma solo dei leader. Ed è proprio quest'ultima una delle caratteristiche comuni delle Primavere Arabe: l'assenza di leader carismatici, di figure capaci di interpretare e dare uno sbocco alla profonda crisi sociale e politica.

La Primavera araba e’ stata anche la primavera delle donne. Il loro contributo è stato fondamentale. Hanno combattuto, con o senza velo, fianco a fianco agli uomini smarcandosi dalla visione tradizionale che le vedrebbe sottomesse, imprimendo alle rivolte un forte impatto e un forte significato. E ciò che oggi fa loro più paura non sono tanto le novità, quanto gli elementi di continuità con i vecchi regimi. In Tunisia le donne hanno conquistato le cosiddette «quote rosa», cioè una percentuale garantita nelle liste elettorali, cosa che non hanno ottenuto le donne egiziane, infuriate con il Consiglio Supremo per non aver garantito loro un'equa partecipazione al voto. Colpa di un sistema elettorale che – subdolamente - obbligava a candidare almeno una donna. Proprio una donna protagonista della piazza di Sana’a, la giornalista yemenita Tawakul Karman, 32 anni, ha vinto il Nobel 2011 per la pace per il suo attivismo non violento in favore dei diritti umani -in particolar modo delle donne e dei bambini- della libertà d'informazione e di stampa, contro la corruzione e il malgoverno, nelle numerose manifestazioni con il gruppo Women Journalists Without Chains (Wjwc) da lei fondato.

Le università arabe hanno invece rappresentato una piattaforma importante per le rivoluzioni. Sono state un aggregatore sociale fondamentale perche’ sono riuscite a collegare le organizzazioni studentesche, oltre ad essere state scenari delle proteste (vedi articolo "Niqab e attivismo femminile: ecco l'8 marzo tunisino").

Altrettanto fondamentali nelle Primavere Arabe sono stati gli imam. Pur non esponendosi in prima persona, hanno svolto un ruolo importantissimo facendo da collante tra i cittadini e la politica, come gia’ accaduto in tutte le grandi stagioni di cambiamento. Ma durante la formazione degli stati nazionali il loro compito e’ stato ristretto al ruolo di messaggeri dei raiss per propagandare e legittimare le loro scelte, creando consenso nel popolo. Una volta caduti i regimi semidittatoriali, anche per loro si e’ aperta un’altra stagione, che consente loro di partecipare attivamente alla ricostruzione dei Paesi arabi, come si puo’ vedere in Tunisia e in Egitto, spingendo la popolazione ad essere parte attiva del nuovo corso politico, a presentarsi alle urne per decidere il proprio futuro: il loro e di tutto il mondo arabo.

10 Maggio 2012

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